Categoria: LEGGERE
IL BANCO VUOTO

«Vale anche per domani?» sono le sole parole che sono riuscita a farfugliare.
«Per sempre. Sei ebrea.» Il tono era categorico: «Sei radiata da tutte le scuole del Regno. Per sempre.»
Sono rientrata in classe, ho detto poche parole a bassa voce alla mia amica e mi sono messa a raccogliere tutte le mie cose, in un’atmosfera gelida di perfetto silenzio: c’erano fissi su di me gli occhi curiosi delle miei compagne e c’era il professore che in piedi a braccia incrociate attendeva la mia uscita. Non un gesto amichevole, non una sola parola di saluto: io, tutta rossa, accaldata, mi sentivo un’intrusa, mi sentivo una che non aveva più il suo posto in quel luogo. Solo la mia amica Ada mi ha aiutata a raccogliere i libri.

 Il banco è rimasto vuoto fino alla fine dell’anno.

[La sua amica Ada Lotto non volle nessuno vicino ad occupare il posto di Alba Finzi.]

Per la famiglia di Ada non era cambiato niente, andavo a casa sua, sua madre mi dava la merenda e viceversa, lei veniva a casa mia. Sua madre se non mi vedeva diceva: «Dov’è Alba?». I suoi due fratelli dopo hanno fatto i partigiani. Sua madre e suo padre hanno nascosto un ebreo di Modena a casa loro. Una famiglia di Giusti.
Altre amiche invece quando mi vedevano per la strada facevano finta di non conoscermi.” (pp. 17-18)

Così Alba Finzi, in una testimonianza citata da M.T. Sega, racconta le leggi razziali del 1938; o meglio, racconta cosa prova una ragazza di 15 anni ad essere cacciata da scuola senza aver fatto niente, senza un motivo plausibile, se non quello di “essere ebrea”. Il delitto, il reato, non è stato mai commesso eppure si è colpevoli. Colpevoli di esistere e di trovarsi improvvisamente estranei alla propria città, alla propria scuola, alle proprie amicizie.
M. T. Sega mette assieme con sapienza le testimonianze raccolte in un ventennio di interviste con testi di memorialistica e di carattere generale, dipingendo un affresco emozionante degli anni delle leggi razziali a Venezia. Leggendo il suo libro non veniamo solo a sapere cosa accadde agli ebrei veneziani in quegli anni ma conosciamo soprattutto il loro sentire, le loro emozioni, le loro reazioni a soprusi inspiegabili per una bambina che in V elementare, all’età di 10 anni, viene mandata improvvisamente a casa, da sola, e solo lei, mentre il resto della classe resta a scuola. Le leggi razziali diventano qui un atto di bullismo di Stato. Diventa lecito insultare, schernire, i bambini, se ebrei, come fanno i bulletti di quartiere. La comunità ebraica di Venezia reagisce alle discriminazioni creando una rete di solidarietà, di aiuto reciproco, ampliando la già esistente scuola elementare privata in Ghetto, a cui viene affiancata una scuola secondaria, un Istituto Tecnico e un Liceo. Direttore è il rabbino capo Adolfo Ottolenghi. Preside della scuola secondaria è il prof. Augusto Levi, il preside dell’Istituto Magistrale Tommaseo, cacciato perché ebreo. Tra le maestre troviamo Marta Minerbi Ottolenghi, direttrice didattica della scuola elementare di Mogliano Veneto, cacciata perché ebrea.
La vita quotidiana dei giovani ebrei scorre in modo “quasi normale”, la discriminazione esiste ma ci si convive in qualche modo. Anche in tempo di guerra.  La svolta drammatica avviene nell’ottobre 1943. La Repubblica di Salò dichiara, in ottemperanza agli ordini di Hitler, che  tutti gli ebrei sono “nemici” della Patria. Iniziò la “caccia all’ebreo”. Fu il tempo della delazione e della fuga, della cattura e della salvezza, dei collaborazionisti e dei Giusti.

“Dopo due secondi degli uomini si avvicinarono alla mia porta e con gran fracasso e grida intimarono di uscire. Io me ne stavo in camera e mi sembrava di non avere più una goccia di sangue nelle vene. Non volevo aprire, non mi sarei arresa fino a che non avessero sfondato la porta, però capivo che era questione di pochi secondi. Mi gridavano che se non aprivo, avrebbero gettato una bomba a mano. Io mi tappavo le orecchie per non cedere. Finalmente, convinti che non ci fosse nessuno in casa, se ne andarono. Quando accesi la luce all’ingresso mi sembrò di svenire dall’emozione, mi accorsi solo allora che la porta era socchiusa. Non potevo comprendere il perché non fossero entrati! Lo seppi soltanto più tardi: due agenti della questura e un commissario, venuti con cinque fascisti, accortisi che la porta era aperta, si misero davanti ai fascisti, fingendo di voler loro forzare la porta senza riuscirvi. Avevano immaginato che qualcuno di noi era in casa e in quel momento mi salvarono.
….

Nel frattempo avevamo conosciuto un certo Carlo Aprile che si spacciava per partigiano. Egli ci propose di fuggire in Svizzera, ma la mamma aveva paura… così sempre con la paura restammo a casa nostra fino al 5 maggio. Sapemmo più tardi che Carlo Aprile non era un partigiano, ma un agente dei nazisti, l’interprete che venne ad arrestarci con i tedeschi ci disse che era stato lui a denunciarci tutti per denaro: per ogni ebreo denunciato c’era un premio di cinquemila lire!” (p. 101)

Amalia Navarro nel suo racconto - Siamo ancora vive, Edizioni Messaggero, Padova 2002-  citato da M.T. Sega, ci fa scoprire la casuale e contemporanea presenza nella vita degli ebrei di persone Giuste che rischiano la propria vita per salvarne altre e delatori spregevoli che per denaro le vendevano. Sega ci fa sapere che della famiglia Navarro – il fratello, la mamma, la zia, un cugino con la moglie e due bambini , il più piccolo di soli 8 giorni -  sopravvissero alla Shoah solo le sorelle Amalia e Lina. Arrestati il 5 maggio 1944, portati al carcere di Santa Maria Maggiore, il 30 maggio furono trasportati a Fossoli da dove, il 23 giugno, furono deportati ad Auschwitz. All’arrivo Le sorelle furono divise dalla famiglia e obbligate al lavoro. Successivamente vennero spostate a Bergen Belsen, Buchenwald, Theresienstadt. Rientrarono a Venezia a guerra finita.

Il libro di Maria Teresa Sega dovrebbe essere presente in tutte le scuole, proposto come efficace antologia di razzismo. Ogni insegnante potrebbe leggerne qualche pagina ai propri allievi per mostrare come sia possibile, perché è stato possibile, iniziare con leggi, usi, costumi e mentalità a dividere gli italiani “veri” da quelli “meno veri”, discriminare le persone con entrambi i genitori di religione cattolica, dalle persone con un solo genitore battezzato e l’altro ebreo (o mussulmano, ateo, buddista…), e, in un clima di nazionalismo integralista, magari anche un po’ guerrafondaio, capire come si possa procedere nell’abisso fino a giungere davvero a rivivere sotto altre forme aberrazioni tragiche come quelle degli anni 1938-1945.