M. Dondi-S.Salustri, SESSANTOTTO. Luoghi e rappresentazioni di un evento mondiale
Cosa hanno in comune la Sproul Plaza di Berkeley, il Palazzo della Sapienza di Pisa, Valle Giulia a Roma, il Quartiere Latino a Parigi? La domanda è retorica. La risposta è ovvia: il SESSANTOTTO. Con questo, però, i luoghi diventano tanti, tantissimi, fino a toccare molti paesi di tutti i continenti. Un evento mondiale, nel quale la contestazione fu globale, come si scrisse allora. Oggi, “il movimento del ’68 non ha monumenti ‘di pietra’, ma un intenso processo di significazione, coevo e successivo agli eventi, nei media e nelle memorie dei protagonisti, creando un ampio agglomerato di luoghi-monumento” (M. Dondi p. 11).
Così, sulla scorta di un convegno internazionale tenuto a Bologna nel settembre 2016 sui luoghi simbolo del 68, il libro curato da Mirco Dondi e Simona Salustri mette assieme una dozzina di brevi saggi, ciascuno dedicato ad uno o più luoghi monumento/simbolo/mito di un evento riconducibile a quella congiuntura storica specialissima che si è convenuto battezzare con un anno nel quale lo spazio e il tempo sono sembrati convergere, tanto che nel ricordo se n’è fatto mito assoluto.
“Un momento percepito come irripetibile e che condanna a rivivere quella felice parentesi con accenni tali di nostalgismo da rivestirlo irrimediabilmente di una patina onirica. La rivolta francese si pone cronologicamente tra Valle Giulia e la repressione a Praga. Ancora a metà tra l’offensiva del Tet in Vietnam e la strage di piazza delle Tre Culture a Città del Messico.”(A. Benci p.148).
E’ Mirco Dondi che, nel suo saggio sul trasferimento dall’Università alla Città del movimento degli studenti, ci fornisce una guida per una “geografia degli spazi del movimento” tra “luoghi lambiti, luoghi anticipatori, luoghi contesi, luoghi bersaglio, luoghi ridefiniti, luoghi contesi altrove, luoghi (utopici) dell’altrove”.Il fatto è che i movimenti degli anni sessanta nati in seno all’Università ed esplosi intorno al ‘68, trovarono esca e scintille per il fuoco, lontano, in Indocina. Chi avrebbe mai pensato quattro anni prima, che un incidente navale nel golfo del Tonkino, opportunamente trasformato in un falso mediatico, si fosse rivelato utile al presidente Johnson per ottenere dal Congresso i mezzi ad attaccare il Nord-Vietnam trasformando una locale guerra di decolonizzazione nella più importante e impegnativa guerra combattuta dagli Stati Uniti dopo quella di Corea?
Gli studenti che si battevano nelle Università per ottenere spazi di autonomia e liberazione dagli autoritarismi culturali dominanti si trovarono a doversi battere contro la guerra, per la pace, contro il razzismo, per l’uguaglianza sociale.
I mass-media aiutano, se non addirittura creano, il movimento. La rivolta contro la guerra e le disuguaglianze si allarga, dilaga. La contestazione al sistema si fa mondiale e sincronica. A gennaio i nord-vietnamiti e i vietcong attaccano le città del sud, mentre a Berkeley in California e a New York alla Columbia gli studenti bloccano le Università. Quarant’anni dopo, Paul Auster, allora studente della Columbia, racconta: “Essere pazzo furioso mi sembrava la risposta perfettamente sana alla realtà in cui mi trovavo, la realtà che veniva data a tutti i giovani nel 1968… ero pazzo, pazzo furioso per il veleno del Vietnam nei miei polmoni…” (riportato da B. Cartosio p.107) Gli studenti sono i protagonisti. I giovani e le donne sono i nuovi soggetti storici. E si muovono. E occupano spazi. Dentro e fuori. Nelle aule e nelle piazze. I saggi di Bruno Cartosio sulle occupazioni alla Columbia University, di Ugo Russo sul Maggio francese e di Marica Tolomelli sul Sessantotto tedesco ci raccontano le imprese di quei giovani per capovolgere le istituzioni, prendere la parola, occupare più spazi possibili, e più significativi possibile. E da noi? in Italia? La facoltà di sociologia a Trento fu uno shock per l’intera città. “Il rapporto tra università e città è quello di un percorso fatto di curiosità e di scontri, di affetto e circospezione, quasi mai di indifferenza. Non fu una parabola, ma un’iperbole…” (p.75) G. Agostini, A. Giorgi e L. Mineo ci spiegano il passaggio dall’iniziale benevolenza con cui vengono accolti studenti e professori allo sgomento e all’asprezza con i quali vengono trattati dopo le occupazioni e le contestazioni. E’ invece Simona Salustri che si incarica di raccontare il Sessantotto a Roma, dove l’evento inizia nel 1966 con la morte di Paolo Rossi ad opera dei fascisti e culmina il 1° marzo 1968 nella “battaglia ad Architettura”, come titola il “Paese sera” del pomeriggio. La colonna sonora del racconto è la Valle Giulia cantata da Antonello Venditti e Paolo Pietrangeli, spazio ideale diventato mitico. “E’ indubbio – scrive la Salustri – che Valle Giulia abbia rappresentato al contempo un evento e un luogo simbolico per il movimento: la sua perdita d’innocenza di fronte alla violenza, anche in seguito ad una generale riorganizzazione delle forze di polizia, iniziò a fare più notizia degli esperimenti didattici e delle proposte di riforma delle università e della società prodotte nelle interminabili ore di dibattito durante le occupazioni.” (p.89)
I saggi conclusivi del libro ricordano, poi, un Sessantotto anche diverso da quello a cui siamo abituati. Elena Lamberti scrive della “rivoluzione tranquilla” di Montréal in quel Canada nel quale un presidente illuminato come il giovane Trudeau riesce a disinnescare la mina secessionista del Québec francofono; e intanto all’Università di Toronto un professore di letteratura, Marshall Mc Luhan, rivoluziona l’idea di comunicazione e riconosce dignità alle controculture dell’epoca. Antonio Benci presenta l’immaginario del Sessantotto concentrando la sua attenzione su manifesti, graffiti, slogan del Maggio francese, ricordando che alcuni diventarono proverbiali per definire il Sessantotto (“l’immaginazione al potere”, “vietato vietare”), altri addirittura diventarono testata di giornali a grande diffusione e movimenti politici importanti (Lotta Continua).
Stefano Colangelo si sofferma su uno spazio scenico che è di per sé un simbolo: il corteo. Lo fa utilizzando alcuni esempi letterari non di grande successo ma efficaci. Ferdinando Fasce ricorda che il Sessantotto è figlio dei lunghi anni sessanta, i quali risuonano della musica dei fab four , i quattro ragazzi di Liverpool. Lo fa analizzando un concerto, una canzone e un’incisione dei Beatles. In questo modo ci ricorda efficacemente che la loro musica è fondamentale per comprendere “il rapporto fra consumi culturali, controculture e culture politiche in senso stretto” (p.161) di quegli anni.
Ogni tanto si sente parlare di un museo del Sessantotto inevitabilmente carente di reperti particolarmente significativi ma possibile utilizzando moderni strumenti digitali. Ebbene Antonella Guidazzoli e Maria Chiara Liguori affrontano il tema in un saggio sugli ecosistemi digitali tra ricerca storica e divulgazione, mentre Ottavio D’Adda si cimenta su una possibile rappresentazione in 3D della battaglia di Valle Giulia.
Infine, una ricca bibliografia accompagnata da un’appropriata sitografia consultata il 20 marzo 2018 chiudono degnamente il volume.