MOHSIN HAMID, IL FONDAMENTALISTA RILUTTANTE, Einaudi, 2007 e 2008, pagg. 134 - Recensione di CHIARA PUPPINI
“Adesso mi domando, signore, se credessi davvero alla solidità dei fondamenti della nuova vita che stavo cercando di costruirmi a New York. Di sicuro volevo crederci, o quantomeno non volevo non crederci, con una tale intensità da impedirmi di fare l'ovvia connessione tra il frantumarsi del mondo intorno a me e l'incombente distruzione del mio personale sogno americano. ...tanto evidenti erano i presagi dell'imminente disastro, nelle notizie, per strada e nello stato della donna di cui ero innamorato”.(p.69)
Changez, giovane pakistano, così manifesta l'impossibilità di integrarsi in un'America che sente diversa prima, nemica poi. In questo romanzo inquietante, anzi unheimlich, termine freudiano che condensa il familiare con l'estraneità, Chavez si racconta a un Americano, senza volto e senza parole, i cui desideri e i cui fastidi sono manifestati soltanto dal narratore. Incarna l'alter ego di Chavez se avesse mantenuto la sua americanità.
A lui il pakistano racconta dei suoi studi a Princeton dove subito si fa notare per essere uno studente eccezionale, mai “un solo voto sotto del massimo”, ma in cui s'incunea un sentimento di diversità dai colleghi americani, più numerosi e meno scremati dei pakistani, che possono spendere senza problemi, mentre Changez deve misurare le sue risorse, pur provenendo da una famiglia media. Poi dopo la laurea summa cum laude, poco più che ventenne, gli viene offerto un posto prestigioso e ben remunerato presso la Underwood Samson, azienda di analisi economico-aziendale. Si distingue subito per le capacità, la determinazione, la lealtà verso l'azienda, di cui non discute gli obiettivi, anche se spesso la ristrutturazione comporta dimensionamento del personale. Chavez applica semplicemente le finalità dei suoi dirigenti. S'innamora di una compagna di studi, Erica, che però non sa uscire dal lutto del suo precedente compagno, tanto che riuscirà a fare l'amore con lei solo chiedendole di pensare a Chris, il suo rivale defunto. Da questa esperienza ne esce “sazio e pieno di vergogna. La sazietà era comprensibile, la vergogna più disorientante”. Poi arriva l'11 settembre e i venti di guerra che soffiano dall'America verso l'Afganistan, l'India, il Pakistan. Incomincia a essere meno concentrato nel lavoro e quando il direttore della casa editrice, presso cui stava lavorando per determinare il valore dell'azienda, gli parla dei giannizzeri si sente ”un moderno giannizzero, un servitore dell'impero americano in un momento in cui stava invadendo un paese consanguineo al mio e forse stava addirittura complottando perché anche il mio si trovasse di fronte alla minaccia della guerra” (p.111) “Un'America come quella andava fermata...”(p.122)
Incomincia a lasciarsi crescere la barba e alla fine si licenzia. Anche il suo sogno d'amore svanisce perché non riesce a trasmettere a Erica la gioia e la voglia di vivere.
Questo lungo racconto si svolge a Lahore durante una cena. Quando Chavez accompagna l'Americano al suo albergo, rileva il suo timore di essere seguito: “Ma perché si fruga nella giacca, signore? Ho visto balenare un riflesso metallico. Dal momento che siamo ormai legati da una certa intimità, presumo che si tratti dell'astuccio dei suoi biglietti da visita”. (p.134)
Sembra non ci sia speranza: il male e il bene sono contrapposti, la cultura del denaro, del successo, del dominio sta contro una cultura delle emozioni, del vivere in pace.
Resta un interrogativo: è forse impossibile una trasversalità nella collaborazione tra i popoli per una cultura di pace e di valori umani condivisi, invece di una contrapposizione tra nazioni “buone” e nazioni “cattive”?
Chiara Puppini
da "Esodo", n° 2, aprile-giugno 2016, p. 79