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La geografia serve a fare la guerra? Riflessioni intorno a una mostra

Massimo Rossi, La geografia serve a fare la guerra? Riflessioni intorno a una mostra, Fondazione Benetton Studi e Ricerche con Antiga Edizioni, Treviso, 2016

La mostra cui fa riferimento il titolo del libro è quella che si è tenuta lo scorso anno a Treviso agli Spazi Bomben. I ragionamenti a cui ci invita il curatore, Massimo Rossi, nel percorso di visita e, ancor più, nella lettura a posteriori del volume che la illustra, sono emblematicamente sintetizzati dal titolo, da lui stesso citato, del pamphlet del geografo marxista Yves Lacoste La geographie, ça sert, d'abord, à faire la guerre, a cui egli ha posto un punto interrogativo.
Infatti, se è indubbiamente vero che non si può fare la guerra senza la geografia, è anche, e soprattutto, vero che lo studio del pianeta Terra non è finalizzato di per sé alla guerra. Anzi. Massimo Quaini, in un colloquio con il curatore auspica "una geografia molto pragmatica, applicata ai bisogni dei cittadini piuttosto che agli stati maggiori militari ed economici".
Nelle carte e nei materiali in mostra la geografia viene storicizzata. O meglio. Viene mostrato come e quanto l'uso della geografia sia stato, e venga ancora, piegato ad esigenze ideologiche e propagandistiche, oltre che militari.
Il percorso inizia sottolineando con forza l'inesistenza in natura di confini.
"Il confine naturale non esiste. Il problema di demarcare, definire o delimitare è un problema culturale, non naturale. In natura non esiste discontinuità, la natura è continua, non c'è discontinuità tra terra e mare, tra un fiume che scorre e le sue rive, si tratta sempre di un continuum. Ogni confine è politico." (p. 24)
Vengono in mente le due carte geografiche esposte nelle nostre vecchie aule scolastiche dell'Italia "fisica" e dell'Italia "politica". In quest'ultima, solo in essa, erano segnati i confini; quei confini che mutavano a seconda degli anni nei quali si studiava la geografia dell'Italia. Ma, guardando bene, davvero i confini non c'erano nelle carte dell'Italia "fisica"? Come mai, in certi anni, nella rappresentazione "naturale", "fisica" e non "politica", dell'Italia era compresa anche la penisola istriana e la costa dalmata?
Ci si chiede: "Quando e perché la geografia "fisica" si trasformò in geografia "politica"?
Rossi trova la risposta nello studio del geografo francese Philippe Buache che a metà Settecento propose il concetto di linea spartiacque attraverso vette e creste di catene montuose per separare grandi e piccole aree geografiche in distinti bacini fluviali. "La geografia fisica divenne allora un utile strumento per dar forma alla superficie terrestre anche in rapporto alla geografia umana e il passo che porta dalla separazione ‘naturale' di aree geografiche in bacini idrografici, alla delimitazione di altrettanti confini ‘naturali' di aree occupate da comunità umane ‘omogenee', è breve, vale a dire far coincidere un'entità politica con una precisa delimitazione territoriale." (p.27)
La politica aveva inventato i confini. La geografia e la cartografia li rappresentano.
Scrive M. Rossi: "I materiali cartografici esposti in mostra chiariscono il transito da «espressione geografica» a «consapevolezza nazionale» e tradiscono una delle funzioni della cartografia, vale a dire il suo essere un potente mezzo di comunicazione non verbale in grado di reificare concetti astratti, come appunto l'idea di nazione."
Accanto all'idea di nazione l'Ottocento partorisce il concetto di razza biologica e gli apparati burocratici degli Stati nazionali si adoperano nella redazione di mappe etnico-linguistiche o delle razze, utilizzando quello che qualcuno ha definito "la grande finzione dei censimenti"
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Rossi cita Lucio Gambi che nel 1965 scriveva: "le carte della distribuzione della popolazione , non rischiano, forse di inchiodare gli uomini nei luoghi della loro residenza legale o della loro ubicazione alla data del censimento? Il loro guaio non è forse di congelare o nascondere l'idea e il valore delle relazioni degli uomini fra loro?".
Dalla nazione alla razza, passando per l'identità. Ci accorgiamo di maneggiare concetti pericolosi. Che scottano. Fiammeggianti. E infatti, da loro e con loro, gira e rigira, finiamo per farci la guerra.
La geografia certifica tutto questo, a volte, con autentici prodotti artigianali/artistici. In mostra si possono ammirare straordinarie rappresentazioni cartografiche, planisferi ricamati su un tappeto afgano o pakistano, oltre a mosaici fotografici che ricostruiscono il territorio aldilà del fronte nemico con riprese da palloni aereostatici o da piccioni viaggiatori durante la prima guerra mondiale.
Infatti, come disse Andrea Cantile a Mario Rossi nel 2015: "...pur se la geografia non ha ovviamente come unico fine la guerra e non nasce per questa, bisogna tenere conto che non si può fare la guerra senza la geografia. E' un dato di fatto. La riflessione che propongo è biunivoca e va in un verso e nell'altro. E' sempre stato così, indipendentemente dai contesti e dalle epoche. (...) Il controllo militare del territorio e la preparazione della guerra sono diventati quindi le leve primarie per la realizzazione delle più grandi campagne di raccolta sistematica delle informazioni geografiche, delle quali hanno beneficiato, di riflesso, la scienza, l'amministrazione, il diporto."
Non si può non porsi la domanda cruciale: "è proprio necessaria un guerra per una ‘grande campagna di raccolta sistematica delle informazioni'? Quando l'umanità crescerà fino a imparare a gestire i conflitti senza ammazzarsi?