IL FORMAGGIO CON LE PERE. LA STORIA IN UN PROVERBIO
Massimo Montanari, Il formaggio con le pere. La storia in un proverbio, Laterza 2008, pp. 162
"Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere". Conosciamo tutti questo proverbio. Ma... che vuol dire? il formaggio con le pere? e il contadino, perché non deve conoscerne l'abbinamento? Massimo Montanari, medievista e storico dell'alimentazione, ci svela l'enigma attraverso la storia sociale del formaggio e delle pere.
"Il formaggio è il cibo di Polifemo, l'uomo-bestia non toccato dal processo di civilizzazione." (p. 23) Il racconto dell'Odissea ci ricorda come a lungo gli uomini primitivi, considerati pre-civili dalla cultura europea, fossero consumatori abituali di latte e latticini, in un'epoca in cui non si era arrivati ancora a "fare" il pane e il vino. Montanari ritrova questa immagine antica nel Medioevo, quando il formaggio è segno della marginalità sociale in quanto costituisce cibo fondamentale della dieta quotidiana dei poveri: contadini, pellegrini, montanari. Le élites non mangiavano formaggio. Del resto la scienza medica del tempo sosteneva che faceva male. Gli stessi proverbi dicevano che bisognava mangiarne poco:
"Il formaggio è sano/se vien d'avara mano". Con il passare degli anni, però, il formaggio lentamente entra a far parte della dieta delle élites. Prima furono le comunità monastiche, le quali, non potendo mangiare carne in quanto legate alla frugalità, nobilitarono i latticini; poi, in Italia, soprattutto, ebbe successo il suo abbinamento con la pasta che era diventata di largo consumo e dove già nel Trecento e nel Quattrocento compaiono i primi formaggi "di qualità" apprezzati dal mercato e legati a luoghi e tecniche di fabbricazione originali (il "piacentino" detto anche "parmigiano"...). Nei secoli successivi, specie nelle società di
àncien régime, gli aristocratici, per portare a tavola il formaggio, ritenuto cibo povero, lo condiscono con spezie raffinate e costosissime, e lo servono a conclusione del pasto, nobilitandone la sua natura contadina di "unico" pasto quotidiano.
E veniamo alle pere.
Nella cultura medievale - ci ricorda Montanari -
"i frutti sono percepiti come cibo d'élite, addirittura come elemento distintivo della golosità signorile". D'altronde si trattava di un cibo delicato e deperibile, al punto che nelle ville signorili si costruiva una grotta per conservarlo al freddo. Non solo. Si pensava che i frutti che crescevano in alto fossero più adatti alle classi "alte", signorili. Come, tra gli animali, i più pregiati erano i volatili, che andavano in cielo. Abbinare le pere al formaggio cancellava, quindi, a quest'ultimo qualsiasi accenno alla sua origine contadina, povera. Peraltro, sia alla pera che al formaggio venivano attribuite qualità stimolanti la passione erotica, ci ricorda un sonetto di Tommaso Campanella.
E alla fine del Quattrocento anche la scienza medica sostiene che le virtù dietetiche della pera equilibrano le perplessità che ancora destava la natura del formaggio.
Resta da spiegare perché secondo il proverbio non bisogna far provare ai poveri il gusto del formaggio con le pere.
L'autore lo spiega col fatto che fino alla Rivoluzione Francese
"l'idea culturale vincente rimane quella di negare al contadino l'istruzione" giacché il sistema d'ignoranza in cui i contadini sono mantenuti è considerato dai proprietari funzionale al proprio interesse.
Infine, nell'ultimo capitolo, Montanari attesta che fin dal XIV secolo le classi subordinate, i contadini, rovesciano il punto di vista costruendo il proverbio
"Non dividere le pere col tuo signore", dal quale è meglio stare comunque alla larga.
"Le due culture [signori e villani] si incrociano e rappresentano interessi contrapposti, ma entrambe usano lo strumento del proverbio per affermare il proprio punto di vista". (p. 121)
Nella campagna senese oggi è diffusa "una versione allungata, rivendicativa e liberatoria" del proverbio:
"Al contadino non far sapere
Quanto è buono il formaggio con le pere.
Ma il contadino, che non era coglione,
lo sapeva prima del padrone."
(p.128)